L'isola vista dal promontorio è un'arazzo che la natura e l'uomo hanno tessuto a quattro mani lungo un tempo infinito guidati, forse, più dal caso che dalla ragione. Nella preziosa trama di questo racconto vivente i boschi dominano la scena: sono i riccioli scomposti sulle cime delle alture che si elevano tenaci dal mare, i ruvidi maglioni fatti dalla nonna che proteggono le loro robuste spalle dagli artigli di nuvole plumbee, i calzari che ornano le scogliere, eterne compagne di gioco delle onde. Su questo sfondo che respira senza sosta al ritmo della brezza salmastra, altezzose ville fanno bella mostra di sé in bilico su strapiombi, civilizzati uliveti ammiccano a selvaggi mantelli di macchia mediterranea, lettini e ombrelloni attendono la fine della stagione mantenendo obbedienti le geometriche posizioni a loro affidate su piccole falci di rena rosa, soffici resti di antichi contrafforti di granito. Qua e là, la poesia è punteggiata da piccole concessioni all'utilità pratica: brevi viadotti che collegano tra loro scoscesi promontori evitando alle strade di avvilupparsi in girandole di tornanti e grandi parallelepipedi a tre, quattro e più stelle avvolti dall'inconfondibile silenzio che lascia dietro di sé una festa appena finita.
Mentre scorro con lo sguardo il profilo di questo lembo di terra incastonato tra cielo e mare, due imperi ai quali ogni giorno egli rivendica uno spazio vitale tutto per sé, sento che al mio incanto manca qualcosa; nella mia ammirazione non c'è trasporto, il tempo, lo spazio e il mio battito rimangono imperturbabili e mi domando se quella innegabile bellezza non sia forse troppo compiuta.
La risposta è alle mie spalle. Su questo fronte, lo spettacolo è la sua perfetta antitesi. Protagonista assoluta è una povertà che rasenta l'assenza: qui elementi, forme, colori sono ridotti al minimo indispensabile, alla sazietà indotta dall'opulenza si contrappone il fascino ipnotico ed elegante del mistero, non c'è esibizione ma magnetico richiamo, il pubblico non assiste, inventa, crea.
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