Sono passate da poco le 17.00 di questa bella domenica di sole e sto tagliando il traguardo di un percorso che oltre a tre giorni di calendario ha attraversato tante altre cose, fuori e dentro di me.
Il risultato? Sono soddisfatto, sazio di una sazietà perfetta, felice e compiaciuta.
E come sempre in questi momenti, avverto che le parti del mio corpo stanno già sfogliando i loro personali album dei ricordi.
I muscoli, soprattutto quelli delle gambe, mi fanno tornare a percorrere sentieri di terra e sassi, ad avanzare nel bagliore delle strade bianche e sul nero dell’asfalto, a rivivere le tensioni delle salite e delle discese (il cui gradimento con l’avanzare dell’età si è invertito), a confermare l’innata simpatia che invece continuano ad ispirarmi i tratti in piano. Mi ritrovo a scavalcare pozzanghere di acqua e di fango, radici che affiorano, a rialzarmi maledicendomi dopo una breve pausa durante la quale mi sono incautamente seduto (mai, Andrea!) oppure a gioire festoso quando il Capo dice che mancano 10 minuti all’arrivo e dal suo tono di voce capisco che questa volta non sta scherzando. Insomma, i muscoli sono semplici e hanno ricordi semplici, fatti soprattutto di fatica e di orgoglio di avercela fatta.
Di tutt’altra pasta sono le orecchie. Esentate da qualsiasi tipo di compito faticoso possono dedicarsi ad ascoltare senza neppure doversi porre il problema di risultare inopportune, al contrario degli occhi che non possono sempre soffermarsi a piacimento su qualcosa o su qualcuno che li incuriosisce. Le orecchie per lo più si divertono, ascoltano, selezionano e mettono da parte. Tanti i tesori accumulati; tra questi, ovviamente, resistono alcuni classici, tipo:
“Macchinaaaaa!” (nelle due varianti “daddietro!” e “daddavanti!”)
A beneficio del divertimento, in questa occasione, la presenza degli amici veneti ha arricchito notevolmente il caleidoscopio sonoro con nuove sgargianti vibrazioni, veri e propri saliscendi di sillabe che sembrano seguire il profilo delle colline. Vagabondando all’interno del gruppo in cammino, tengo per qualche minuto il punteggio di una gara immaginaria dove senesi e padovani si sfidano a chi si mangia più consonanti. Per un povero lombardo come me è come assistere al campionato del mondo della specialità. Dopo un paio di chilometri mi arrendo e assegno un meritatissimo ex-aequo cestinando ogni mia velleità di futura partecipazione.
Ed ecco riaffiorare anche l’appassionato racconto del contradaiolo del Leocorno, che sforna parole impastate con l’amore, le giovani voci delle due cantanti, che trasportano molti di noi indietro nel tempo creando inediti abbinamenti come il crostino di milza con Gianni Morandi oppure la zuppa di fagioli con cipollotto fresco e Domenico Modugno stagionato, o il sibilo del dardo scagliato dalla balestra seguito dal colpo secco del medesimo che si infila da qualche parte, dove “da qualche parte” non è sempre necessariamente il bersaglio.
Intanto gli occhi, che in questo mondo forse un po’ troppo suddito delle immagini si sentono più importanti e guardano muscoli e orecchie dall’alto in basso quasi fossero loro gli unici depositari dei ricordi, prendono a scorrere fotogrammi a ruota libera, senza alcun ordine particolare o forse, in realtà, legati da nessi potenti ma per me ancora nascosti.
Riappaiono le cangianti nuvole che con l’aiuto del vento inscenano storie senza fine: ora candide barche a vela che solcano veloci e silenziose la volta azzurra sopra di noi, ora tonanti guerrieri che assediano l’orizzonte gonfiando i loro muscoli cupi e carichi d’acqua. Rivedo le geometrie dolcissime di queste colline, fatte di linee seducenti per l’occhio e per lo spirito, punteggiate da borghi, casali, torri in piedi e torri sdraiate, da ordinati vigneti, pettinati cipressi e olivi arruffati. Riappare il pacifico esercito di preziose botti, schierato nelle viscere della terra a custodia di uno dei tesori di questa regione, il ripido cunicolo percorso da monache bisognose d’acqua, il sublime connubio di semplicità e solennità dell’Abbazia di Abbadia Isola e molto altro ancora su cui non mi soffermo per non alimentare la supponenza dei miei bulbi oculari.
E infine, mescolando il tutto, resto un po’ a galleggiare beato su questo mare di sensazioni, consapevole di avere avuto un privilegio raro: quello di assistere alla gioiosa curiosità di chi è ospitato mentre accoglie l’orgogliosa offerta di chi ospita, in uno scambio che lascia ad ognuno motivi per esser grato, a cominciare da me.
Grazie a tutti!
AF
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