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Arezzo (col naso all'insù)

Giro la chiave dell'auto e il cruscotto si illumina, diligente come sa esserlo solo una macchina. Il mio occhio corre veloce nell'angolo in basso a destra, quello della temperatura: il segno meno si pavoneggia con fare un po' spaccone davanti a un 3 che, al contrario, mogio, sembra implorarmi di credere che lui non c'entra. 

Mi guarda, il Meno, direi di più, mi sfida: "Dai, Andrea, fammi vedere se hai il coraggio di uscire di casa. Sappi che io da qua oggi non mi muovo!". Non sa con chi ha a che fare, questo Meno. Bisogna capirlo, è il primo di quest'anno, è ancora giovane e suoi modi guasconi più che freddo mi ispirano una paterna tenerezza. Alzo la lampo della giacca fin sotto il mento e parto.

Giungiamo ad Arezzo. La comitiva, infagottata e sorridente, lascia il parcheggio fiduciosa. Sopra di noi il cielo pare smaltato; l'azzurro ha un'intensità benaugurante. Ci fermiamo sotto la Torre del Gnicche. Dalla finestra si sporge un alberello vestito solo d'inverno che ci fa capire silente che il Gnicche non c'è, che possiamo proseguire, anzi, che se proseguiamo è meglio, visto che è domenica mattina anche per lui e qualche minuto di sonno in più in verità non gli dispiacerebbe proprio. Alzo lo sguardo e vedo quella Torre, quell'alberello, quel cielo. L'improvvisa bellezza e lo stupore, da sempre complici, si presentano insieme. Per un istante torno bambino, l'età in cui tutte le cose che ti stupiscono sono più grandi di te e quella scintilla ti coglie sempre con il naso all'insù. 
 
Scendiamo un dolce pendio accompagnati dall'acquedotto Vasariano. Sopra i suoi eleganti archi corre l'acqua che da secoli abbevera la città.

L'ombra delle possenti mura mi riporta alla mente il ghigno minaccioso del Meno; in questo gelido istante il bastione che mi sovrasta pare la prua di una nave rompighiaccio. Non mi perdo d'animo e proseguo verso l'isola di sole che fa capolino all'orizzonte.

 

 

San Domenico non è una chiesa. È il posto dove la Bellezza si esercita per capire come rimanere se stessa togliendo tutto ciò che è superfluo. Poggiato lassù, sapientemente asimmetrico, il campanile a vela è un gioiello di proporzioni che ingentilisce l'austera facciata. Ci invita ad entrare: "Tenete i nasi all'insù e state pronti!", sembra dire a noi bimbi. Io sono pronto, il naso è in posizione e la curiosità pulsa impaziente: entro. La gotica maestosità dello spazio mi sussurra, senza mezze misure, di ricordarmi che sono solo un uomo. Le distanze tra le vetrate si accorciano progressivamente per accentuare la prospettiva: sul fondo di quella tensione fatta d'aria e di luce si staglia il crocifisso del Cimabue, anche lui alto, in tutti i sensi. Aleggia silenzioso mentre fonde ed emana potenza e dolcezza. I giochi cromatici delle pietre che contornano le vetrate e gli affreschi di Spinello Aretino e di suo figlio riescono nella difficile impresa di farmi distogliere lo sguardo da quella meraviglia. Esco più ricco, giurerei.


Facciamo una capatina anche a casa del Vasari. Anche qui c'è una finestra aperta, una candida tendina fa le veci dell'alberello. Il Vasari, come il Gnicche, non c'è, ma non è il caso di farne un dramma. Sembra infatti che abbia mancato l'appuntamento anche con l'inaugurazione di diverse opere da lui progettate. Insomma, non è niente di personale, evidentemente.


Provo ad abbassare lo sguardo ma non ci riesco. La Santissima Annunziata, santuario della Madonna delle Lacrime, e il Palazzo dei Priori lo tengono in ostaggio giusto il tempo di consegnarlo al Duomo.



 


 






Decido di arrendermi.  


Tieni il naso all'insù e fai il pieno, Andrea.


Mi sembra proprio che ne valga la pena.





Anche la targa che ricorda Guido Monaco, considerato l'ideatore della moderna notazione musicale ci guarda dall'alto, non molto, ma a sufficienza per non interrompere il gioco.
 
Restiamo a San Francesco giusto il tempo di promettergli che torneremo, sono troppe le meraviglie di questa città per un giorno solo e poi, sinceramente, il collo comincia a dolere.
 
Viene il momento della meritata sosta per il pranzo. Anche la Locanda di San Pier Piccolo è un tuffo nel passato. L'appassionato locandiere ci serve vivande e storia. Dopo il pranzo ci aggiunge una visita al complicatissimo edificio: mi sembra di entrare in un disegno di Escher. Le scale serpeggiano tra le mura arrivando a scavalcare chiese come cavalli al galoppo. L'imprevedibile galleria sfocia dopo un ultimo guizzo di gradini imbizzarriti in una sala che, per la prima volta, ci offre la Bellezza sdraiata sotto di noi. È un incanto da quassù, ma è già tempo di andare.
 
Santa Maria della Pieve ci rapisce con la leggerezza delle sue infinite colonne e ci dona la vista del polittico del Lorenzetti. Guadagniamo Piazza Grande, prestata ai mercatini natalizi. Pullula di turisti vocianti, ma ormai conosco le regole; se alzo lo sguardo la sua nobiltà è ancora tutta lì, intatta. Si sale verso la fortezza, una festa di luci.
Un ultimo sguardo verso l'alto, dove due consumati mattatori della volta celeste si esibiscono mentre rientriamo alle auto: prima il sole ammanta le nuvole d'oro zecchino, quindi la luna aggiunge i suoi riflessi d'argento.

Salgo in macchina e l'accendo, un po' indolenzito ma felice. Il cruscotto ricompare: il 3 è ancora lì, ma adesso è solo. 

Mi strizza l'occhio: "Tranquillo, quel bullo del Meno se n'è andato. Lo sapevo io che non durava."

Gli rispondo sottovoce: "Non c'è problema caro, non ho avuto freddo. Il sole non si è mai tirato indietro e l'amore per questa città che sprizzava dalle parole degli accompagnatori ha fatto il resto."

AF

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